Cambiamento e persistenza
Fra cambiamento e persistenza
Nessuno cuce un pezzo di un vestito nuovo su un vestito vecchio, altrimenti strappa anche il nuovo, e il pezzo tolto dal nuovo non si adatta al vecchio. E nessuno mette il vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo rompe gli otri, ed esso si spande e gli otri perduti (Lc 5,36 s.).
Nel brano biblico citato sopra, l’aggettivo “nuovo” ripetuto dal Signore ben cinque volte è un’evidente sottolineatura sulla necessità di abbandonare usanze insufficienti per rivolgere l’attenzione al cambiamento spirituale e morale rispetto al comune modo di pensare e agire dei contemporanei di Gesù, e forse anche nostro oggi. Tale necessità sussiste infatti ancora oggi. Essa obbliga gli interlocutori di Cristo all’apprendimento, all’assimilazione di concetti e prassi innovative. Ma proprio su questo punto emergono, allora come oggi, le resistenze al cambiamento, il quale mette in crisi ciò che era “vecchio” ma apprezzato, come ad esempio il vino.
In genere, di fronte a situazioni nuove ci sentiamo spesso impreparati, avvertiamo diffidenza; esse suscitano in noi atteggiamenti di oppositività, se non di paura, soprattutto quando si è troppo distanti dalle esperienze abituali. Le situazioni nuove ci impongono uno sforzo mentale e comportamentale non indolore. Punti di vista diversi, possono minacciare il senso di sicurezza acquisita o la comodità del “già noto”, compromettendo la nostra stabilità.
Ma le nuove condizioni, per quanto possano essere diverse, contengono sempre elementi in comune con le esperienze passate. Tale presupposto mette in moto il processo mentale del “transfert”, ovvero della generalizzazione, mediante cui, per somiglianza di situazioni, applichiamo alla nuova situazione schemi già adottati in precedenza. Se ad esempio c’è un vuoto legislativo, in mancanza di una specifica normativa, inesistente nel Codice Civile, si rinvia agli usi e costumi tipici di quel luogo. In altro ambito, quando la convivenza è diventata un vero e proprio fenomeno di massa non contemplato giuridicamente, il legislatore ha adottato l’istituto giuridico della “famiglia”, così come è accaduto nei casi di separazione e degli affidi dei figli, con il coinvolgimento del Tribunale dei Minori.
Da ciò ricaviamo che nella relazione tra “vecchio e nuovo” troviamo sia cambiamenti sia elementi di continuità. Quando si trovano intoppi nella sfera dei rapporti umani, di sovente sperimentiamo la difficoltà di individuare la giusta soluzione, soprattutto quando questa richiede un cambiamento. Ma quale tipo di cambiamento è necessario attuare per risolvere un problema di questa natura?
La domanda, per quanto possa sembrare retorica, ha un suo reale fondamento, in quanto esistono più livelli di cambiamento.
Il primo livello di cambiamento esprime una variazione di comodo, di facciata, che lascia inalterata la sostanza del problema. Ad esempio, in presenza di una crisi politica si tenta di uscirne cambiando alcuni ministri, facendo il tipico rimpasto di governo, spesso illudendosi di superare la crisi. In un altro ambito, dato che spesso nelle città si raggiunge facilmente il valore consentito di polveri sottili nell’aria, per non indispettire gli automobilisti (che sono anche elettori), la soluzione di comodo potrebbe essere quella di elevare il valore legale di sostanze dannose immesse nell’aria, salvando, apparentemente, capra e cavoli (ciò è realmente avvenuto anni fa a Roma). In questi due esempi di cambiamento è evidente che le soluzioni sono state strumentali, perché non miravano al superamento strutturale del problema, ma al mantenimento di “vecchi schemi”, per non rivoluzionare lo stato delle cose.
Il secondo livello di cambiamento, invece, aggredisce la struttura profonda su cui poggia il problema, incidendo appunto su di esso in maniera diretta.
Cerchiamo ora di esaminare i livelli di cambiamento in ambito religioso. Il cristianesimo s’impose come “nuova Via” sia per l’ebraismo, legatissimo alla Legge mosaica (Es 20,1ss) e alle tradizioni umane (Mc 7,6 ss.), sia per il paganesimo, caratterizzato da politeismo e ancestrali credenze popolari. All’inizio, quando i primi cristiani adoravano presso il Tempio di Gerusalemme (At 2,46 s.), erano apprezzati, anche perché ancora non distinti dal giudaismo. Ma quando l’opera di predicazione del “nome” (persona) di Cristo cominciò a diffondersi, emersero diversità non più conciliabili sia con la tradizione mosaica sia col paganesimo. Quando non si insegnò più l’osservanza della circoncisione [che era il “cuore” della tradizione (Lc 5,12) e della Legge, insieme al rispetto del sabato (Mt 12,8)], ecco che quel “qualcosa di distinto”, sebbene più completo e migliore (la salvezza estesa a tutto il genere umano), fu considerato una novità che minacciava l’identità religioso-nazionalistica ebraica (Gv 18,14), perché interrompeva l’esclusività del rapporto con Dio.
Nel resto del mondo dominava allora il politeismo, con le relative pratiche ritualistiche e idolatriche. I cristiani, minoritari, erano costretti a testimoniare occultamente a causa dell’avversione incontrata sia da parte dell’impero romano che da una parte degli ebrei. Con la conversione di Costantino e l’omonimo editto (febbraio 313), gli europei passarono quasi senza accorgersene al cristianesimo, la “nuova” religione. In realtà, però, la popolazione conservò l’antica mentalità e le vecchie pratiche, che costituivano i fattori di persistenza. Ci si chiamava “cristiani” ma ci si comportava (come forse accade tutt’ora) da pagani. Fu l’inizio del cattolicesimo, caratterizzato da elementi ebraici (sacerdozio, paramenti, liturgie), da usanze paganeggianti (idolatria, culto delle immagini, superstizioni), assieme a un’infarinatura di evangelo, sul quale si adattarono motivi di pratiche e feste preesistenti sia nell’ebraismo sia nel paganesimo (Gal 4,11 s.; Ap 13,1 ss). Ecco alcuni esempi eclatanti che rendono meglio l’idea della relazione fra cambiamento e persistenza in ambito religioso.
Il Pantheon, il “tempio di tutti gli dèi” cui i Romani erano devoti, nel VII secolo venne convertito in basilica in onore di Santa Maria della Rotonda o Santa Maria ad Martyres: si noti la continuità architettonica e di destinazione d’uso.
Nel paganesimo era molto sentito il culto della fertilità (umana, animale, della terra), identificabile nella dea della caccia, Artemide per i greci, Diana per i Romani. Ad Efeso, era rinomato il tempio a lei dedicato (At 19,24 ss.), che costituiva una delle sette meraviglie del mondo antico. Nella figura di Maria si trovò l’equivalente di ciò che aveva rappresentato nel passato il culto a divinità femminili (At 19,27 s.). Forse non è casuale che proprio ad Efeso fu sancito nel concilio del 431 il dogma di Maria come “madre di Dio”. Si utilizzò in modo strumentale questo sillogismo: essendo Gesù Cristo Dio, ed essendo Maria sua madre, Maria è madre di Dio. Nel Nuovo Testamento il culto (adorazione) va rivolto soltanto a Dio (Mt 4,10), mentre la funzione di mediazione fra Dio e uomini è esercitata solo dal Signore Gesù (1 Tim 2,5).
Anche in questo caso appare evidente come il cambiamento sia da considerare di primo livello, in quanto il nuovo spirito della dottrina cristiana fu assimilato nella preesistente mentalità pagana, che si esprimeva nelle pratiche ancestrali legate a originari riti agricoli. Gli esiti di tale assimilazione saranno altrettante pratiche, quali il compimento di “voti” e “sacrifici” in termini prevalentemente strumentali, l’istituzione di santi patroni (sulla scia dei lari, penati, divinità domestiche, dèi patroni pagani): questi elementi sono stati mantenuti (persistenza) sotto altri nomi nel culto di Maria, dei santi patroni (At 13,12) e nelle relative feste.
Scrive Paolo ai credenti di Galazia: “Voi osservate giorni, mesi, stagioni e anni. Io temo d’essermi affaticato invano per voi” (Gal 4,11 s.). Se l’apostolo scrive parole forti contro l’osservanza di festività ebraiche, alle quali i cristiani di Galazia stavano tornando, che avrebbe detto dell’osservanza di “giorni, mesi, stagioni e anni” di origine pagana?
Con le due brevi parabole della pezza “nuova” sul vestito “vecchio” e del vino “nuovo in otri vecchi”, Gesù spiega il rapporto tra la Vecchia e la Nuova legge di Dio. L’otre e il tessuto “vecchi”, già deformati, non sarebbero in grado di contenere né la fermentazione del vino “nuovo” né la pressione esercitata dal tessuto “nuovo” cucito sul vecchio. In entrambi i casi, rompendosi tessuto e otre, si vanificherebbe l’utilità del tessuto e dell’otre. Otre e vestito vecchi rappresentano il vecchio modo di osservare la legge di Dio, addirittura ignorata rispetto alla presunta autorità imposta da usi e costumi tradizionali, come Gesù stesso accusa: “Bene ha profetizzato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomo” (Mt 15,7 ss.; Mc 7,6 ss.).
Il “nuovo” (pezzo di stoffa, vino) costituiva il cambiamento, che per le autorità dell’epoca rappresentava una grave minaccia al sistema religioso, al loro modo d’intendere la volontà di Dio, anche se Gesù stesso aveva affermato di non esser venuto ad “abolire” la Legge, ma a compierla: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; io non sono venuto ad abolire la Legge, ma ad adempierla. Perché io vi dico che in verità finché non siano passati il cielo e la terra, neppure uno iota o un apice della legge passerà, che tutto non sia adempiuto” (Mt 5,17 s.).
La difficoltà a comprendere l’innovativo stile e l’autorevolezza della predicazione di Gesù, che parla come nessuno ha mai parlato né mai potrà parlare (Gv 7,46; Mc 1,27), sta nel fatto che il Signore, per la sua potente capacità analitica ed evocativa, impone all’ascoltatore un autentico, inevitabile esame di coscienza (Lc 19,8 s.; Gv 9,35 ss.). Impone, cioè, un profondo contatto emotivo e cognitivo con la propria anima, dal quale emerge l’immagine della nostra anima, deturpata e malata di finzioni!
Tutto questo dovrebbe attivare la fase iniziale di un cambiamento esistenziale che non può essere strumentale agli occhi di Dio (Atti 5,1 ss.). L’ascolto della Parola del Signore richiede esplicitamente una rivoluzione interiore ed esteriore della persona, ovvero un cambiamento di secondo livello: il ravvedimento.
L’ascoltatore di ieri, come quello di oggi, dopo aver incontrato Gesù nell’Evangelo, ha il diritto e il dovere di posizionarsi, o con Cristo o contro (Mt 12,30), il che vuol dire o cambiare progressivamente (vita natural durante) o rimanere la pochezza di ciò che si è o si è stati!
Con il suo “adempimento della Legge” Gesù crea una unione armoniosa tra persistenza (continuità) e cambiamento (innovazione) della Norma biblica. Gesù, predicando ai contemporanei i contenuti “nuovi” e il suo modo “nuovo” di osservare la volontà di Dio, e scagliandosi contro le forme di bieca esteriorità finalizzata al consenso umano, accentuò – e accentua tuttora –, la responsabilizzazione del credente in quanto “nuova” creatura “innestata” a Cristo con la rinascita battesimale (Rom 6,1ss). Non si può essere rinnovati da Cristo se non ci si accorge di avere la “trave nell’occhio” (esame di coscienza), smettendo di badare, almeno inizialmente, alla pagliuzza nell’occhio altrui. Non si può rinascere in Cristo se non si pratica l’umiltà in modo autentico e profondo (Gv 13,1 ss.) e l’esercizio dell’amore autentico (1 Cor 13,1ss), dell’altruismo sincero, dell’ospitalità fraterna. Il “nuovo” che deve rivoluzionare la nostra persona “vecchia” implica poi l’aggiunta di una serie di virtù non astratte, ma funzionalmente concrete e indispensabili a purificarci dai vecchi peccati (2 Pt 1,5 ss.). Ci si prepara così alla “nuova” vita spirituale, per non rimanere col sapore acidulo del vino “vecchio” o per non indossare un ridicolo vestito logoro, abbellito da una pezza di stoffa “nuova”.
Maurizio Santopietro
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