Riflessioni

EUTANASIA E PAROLA DI DIO

Eutanasia e Parola di Dio Dio non ha bisogno del nostro dolore per donarci salvezza. Non sono le sofferenze nostre che ci aprono la via alla salvezza spirituale, bensì il dolore affrontato e sofferto da Gesù in un gesto unico e irripetibile d’amore volontario a favore di ogni persona umana. Dio ha amato tanto il mondo da dare il Suo unigenito Figliolo a una morte infamante affinché chi impara ad amare Cristo non perisca ma abbia vita piena. Mai il Vangelo afferma che Dio ha bisogno delle nostre sofferenze, quasi fossero un pedaggio da pagare per la salvezza. Il Vangelo parla piuttosto del dono gratuito della salvezza per tutti in Cristo; questo è il senso del perdono ottenuto da Gesù. Non è peccaminoso desiderare una morte dignitosa per una persona amata che vediamo soffrire inutilmente. Anzi, forse è doveroso. Se desideriamo per noi stessi e per il prossimo una vita dignitosa, perché non si dovrebbe poter avere anche una morte dignitosa? Occorre una medicina più umana. Sì alla tecnica e alla specializzazione medica, ma senza dimenticare la persona. Senza che i reparti di rianimazione diventino centri meccanici di conservazione artificiale della vita. È evidente che occorre considerare oltre agli aspetti tecnici della medicina anche le necessità psichiche del paziente, che molti ormai considerano primarie nell’affrontare una malattia. Alcuni cambiamenti si sono avuti; oggi, ad esempio, è più facile rispetto a qualche anno fa curare il malato terminale con terapie antidolore. Il controllo dei processi vitali appare sempre più in mano all’uomo e fa quindi appello alla sua responsabilità. Occorre ripensare questa responsabilità. Già a proposito dell’inizio della vita umana si è avuta una notevole trasformazione della coscienza dei valori e delle norme. Al punto che chi aveva respinto la regolazione “artificiale” delle nascite come negazione della sovranità di Dio sulla vita, si è poi dovuto accorgere che anche l’inizio della vita umana è stato affidato da Dio alla nostra responsabilità (sempre ben diversa dall’arbitrio)... ... Non è vero che “dopo” non c’è nulla. Non è vero che si muore nell’assurdo nulla. La morte può essere invece anticamera di vita con Cristo. Proprio chi crede nella continuità non dovrebbe aggrapparsi a questa vita come all’ultima spiaggia. Anche il credente, proprio perché credente, può evitare l’accanimento terapeutico e abbandonarsi al trapasso accettandolo consapevolmente. Se il morire non è un tramonto senza senso, ma un ritorno a casa, allora forse si può riflettere su questi punti: 1. Il medico non dovrebbe vedere il processo del morire e la stessa morte come una sconfitta personale. Occorre fare del tutto per guarire il malato, ma non per rimandare in modo meccanico, spesso tra tormenti intollerabili, la morte di qualche ora, giorno o anno. 2. Bisogna distinguere tra ciò che tecnicamente è possibile e ciò che ha senso ai fini del ristabilimento dell’intera persona umana. Un’operazione chirurgica o la terapia intensiva non possono esser fini a se stesse. Una terapia ha senso fin tanto che non porta solo a un’esistenza vegetativa, ma restituisce le funzioni fisiche e ristabilisce l’intera persona. 3. Il malato dovrebbe conservare il diritto di rifiutare una cura che gli prolunghi una vita che non è tale ma puro stato vegetativo. Il malato non va isolato ma va circondato dagli affetti familiari. Il compito verso il moribondo non si esaurisce nelle sole misure mediche, ma a queste andrebbe associato l’interessamento umano di medici, infermieri, parenti, amici. Dunque: è più facile morire per chi crede? No. Neppure Gesù è morto senza soffrire, ma è spirato tra i tormenti, gridando a Dio il proprio abbandono. Ha conosciuto e abbracciato la nostra stessa paura. E l’ha fatto per amore, per offrirci il Suo dono gratuito di vita. Ma qui il discorso continua…

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