Riflessioni

La Lanterna non cada in mano al cecato...

Ti amo, Genova! Con quella faccia un po' così/quell'espressione un po' così/che abbiamo noi/prima di andare a Genova/e ogni volta ci chiediamo/se quel posto dove andiamo/non c'inghiotte e non torniamo più/eppur parenti siamo un po'/di quella gente che c'è là/che come noi è forse un po' selvatica/ma la paura che ci fa quel mare scuro/che si muove anche di notte/non sta fermo mai/Genova per noi/che stiamo in fondo alla campagna/e abbiamo il sole in piazza/rare volte il resto è/pioggia che ci bagna/Genova dicevo e un'idea come un'altra/mmm /quella faccia un po' così/quell'espressione un po' così/che abbiamo noi/mentre guardiamo Genova/come ogni volta l'annusiamo e/circospetti ci muoviamo un po'/randagi ci sentiamo noi/macaia scimmia di luce e di follia/foschia pesci africa/sonno nausea fantasia/e intanto nell'ombra dei loro armadi/tengono lini e vecchie lavande/lasciaci tornare ai nostri temporali/Genova ha i giorni tutti uguali/in un'immobile campagna/con la pioggia che ci bagna e i/gamberoni rossi sono un sogno/e il sole e un lampo/giallo al parabrise... Queste parole sono tratte dalla canzone intitolata Genova per noi, scritta da Paolo Conte (1981). Nel pensiero di molti sono associate alla voce di Bruno Lauzi. Bravo. Indimenticabile, come l'altro cantante di Genova, Fabrizio De André, l'ateo che cantava di Gesù. In questa fine del 2011 che vede Genova prostrata da un diluvio, il pensiero di chi l'ha vissuto torna al diluvio fiorentino del 1966, un altro novembre nero. De André insegnava a cantare e a pensare e, studenti giovanissimi, si andava a spalare fango sul Lungarno indossando tute leggere e scarpette da ginnastica Superga - ma già al secondo giorno di lavoro ci dettero stivaloni di gomma. Genova per noi fa pensare. Perché, per esempio, inserire nel testo quella domanda indiretta per chiedersi se quel posto dove andiamo/non c'inghiotte e non torniamo più? Che posto sarà? Forse è la stessa Genova per il ragazzo che viene dalla campagna oppure è quel luogo che inghiotte e da cui non si torna più? Perché quel riferimento a i nostri temporali? Una premonizione? I nostri temporali hanno fatto brutti danni. Hanno chiesto e preteso vittime. Adesso i giorni a Genova non sono tutti uguali. Le vittime sono giovani, bimbi, madri, figli, vecchi. I giorni della tragedia e del lutto non sono giorni uguali. Ci vorrebbe un altro Lauzi, un altro De André a cantare questi giorni tanto diversi. Ma i menestrelli pensosi pensanti e cantanti non nascono tutti i giorni né ad ogni generazione. E oggigiorno le voci di chi pensa sono tanto rare quanto era rara la parola di Dio ai giorni di Samuele (1 Sam. 3,1). Morire di diluvio. Erano malvage le vittime? Perché è toccato proprio a loro e non a me? A me che anni fa - dopo essere emigrato al sud (proprio così) - avevo per un po' desiderato tornarmene a guardare Genova. E allora, mi chiedo, non potevo capitarci proprio io vicino a quell'argine proprio quel giorno? o dentro quell'androne mortale? o in mezzo alla piena che mi avrebbe trascinato via? In una tomba di fango vischioso e acqua? Sì, poteva capitare proprio a me. Avrei pagato un prezzo alto per guardare Genova. Avrei trovato la mia tomba. Così, come contemplando la mia tomba, mi viene forse più facile pensare. Il Vangelo (Luca 13) racconta di un generale di nome Pilato, che passò da Gerusalemme e per sfregio amazzò ebrei di Galilea, mischiando il loro sangue al sangue animale dei sacrifici. Ancora a Gerusalemme una torre crollò. Diciotto persone ne rimasero uccise. Erano malvagi quei galilei? Erano colpevoli quei diciotto morti? Erano più colpevoli degli altri i morti di Genova? Quella nonna, quel bambino, quella madre, erano cattivi? Tanto da meritare una fine simile? Possibile che domande come queste, poste come dinanzi alla mia stessa tomba, o alla tomba tua, non scatenino una discussione con Dio, anzi contro Dio? Persino Giobbe si mise a discutere con Dio e contro Dio! O pensiamo forse che Dio non sappia difendersi? Che abbia timore delle nostre domande troppo difficili? O siamo diventati talmente insensibili e amari e vuoti da evitare sia di pensare sia di discutere? Ma sono i morti quelli che non hanno più nulla da sapere, più nulla da domandare, più nulla da discutere! Allora, non può darsi che noi cosiddetti vivi siamo più morti delle vittime del fango di Genova? Possibile che non ci scuota neppure lo spettacolo della nostra stessa tomba? Potevo esserci io, potevi trovartici tu: neppure questo ci scuote? Vogliamo davvero continuare sulla strada dell'indifferenza insolente, dell'apatia orgogliosa? Continuare a percorrere la strada dell'egocentrismo cortese? Che me ne importa, tanto è toccato a loro!? Oppure continuare sulla strada dell'emozione lacrimosa, che subito dimentica? Quasi sempre le domande contano più delle risposte. Ne ripenso una che non devo trascurare: Quelle diciotto persone sulle quali cadde la torre e li uccise, pensate che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? Quella nonna, quella madre, che per ultimo pranzo hanno mangiato fango prima di diventare fango, pensate che fossero più colpevoli di te o di me o di tutti gli abitanti di Genova o Roma o Napoli? Ecco la risposta del Figlio di Dio: No, vi dico. Non erano più colpevoli di altri. Ma se non vi ravvedete, tutti perirete come loro (Luca 13,5). Altra domanda: e se da quel posto che inghiotte ci fosse realmente la possibilità concreta di ritornare? Cristo Gesù, più calmo di un vigile del fuoco in bilico sulla scala, ci afferra, ci tira fuori dal fango, ci ripulisce la faccia, ci abbraccia, ci restituisce alla vita. Quella vera. Basta afferrare con fiducia la sua mano. Caro uomo, prova a pensare che puoi essere tu a cantare il ravvedimento di Genova, la tua rinascita. Torna a casa, Genova. A casa, dove t'aspetta chi ti ama e ha da offrirti non fango ma pane bianco. [© Riproduzione Riservata - R.T., 2011]

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