Riflessioni

Fondo di investimento

Fondo d’investimento “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio (Lc 12,19 ss.) Ogni parola che abbia una pluralità di significati si presta ad essere facilmente equivocata o ad essere definita in maniera soggettiva. Per esempio, “investimento” per il perito assicurativo vuol dire valutare l’indennità di chi ha subito il danno; per il consulente finanziario è sinonimo di guadagno finanziario; per il poliziotto autostradale significa rilevare e verbalizzare la dinamica dell’incidente; per lo psicologo riguarda la quota di coinvolgimento affettivo che il paziente dirige su qualcuno e/o qualcosa. Il significato assume così un valore soggettivamente determinato che è, nel caso nostro, relativo all’attività professionale esercitata. Ma se la stessa parola è preceduta dal termine “fondo” il senso diventa restringente; riguarda infatti un’operazione finanziaria con l’evidente scopo di ricavare futuri profitti, che saranno direttamente proporzionati al grado del rischio, più è alto, maggiore sarà il profitto. Nell’ambito religioso, nel rapporto fra Dio e l’uomo emergono alcune analogie, soprattutto se riferite alla parabola dei talenti o delle cosiddette mine (Mt. 25,14 ss). In figura, il padrone è Dio, che lascia in “gestione” una dote (= la grazia della salvezza) ai servi (= uomini/donne), con l’esortazione ad investire durante la sua assenza (= fede operante). La differenza del numero dei talenti dati a ciascuno tiene conto delle diverse condizioni di partenza (principio di equiparazione), per cui c’è chi ne ottiene cinque, chi uno solo; da costoro il Signore ritirerà gli interessi attesi (“il giudizio”), mentre il “guadagno” (il tesoro spirituale) è uguale per tutti, a prescindere dal numero dei talenti posseduti! (Mt 20,1 ss.). Ora, proviamo a “ri-leggere” in quest’ottica la proposta fatta da Gesù al giovane ricco, il quale desiderava avere dal Signore il consenso pubblico: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e tu avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi (Mt 19,21). La richiesta sembrò così “estrema” che spaventò perfino gli apostoli (Mt 19,25), che ebbero bisogno di rassicurazioni aggiuntive (Mt 19,26 ss.). Ma Gesù calibrò su misura la chiamata in base alle capacità attitudinali del ragazzo. Il giovane dunque non volle “rischiare l’investimento nel fondo spirituale” in vista dei futuri frutti, cioè “il tesoro nel cielo”! La paura di perdere status sociale, possedimenti e privilegi, e la sfiducia per un cambiamento così radicale lo intristì. Rigettò l’invito del Signore. Nell’amore per Dio non può esserci posto per la paura (1 Gv 4,18). Quel giovane ricco può richiamare alla mente il servo negligente, che non seppe far fruttare il talento ricevuto; il punto in comune riguarda la paura di perdere “qualcosa”, come se “questo qualcosa” fosse più prezioso ed elevato della salvezza. Nella parabola, così confessò il servo: […] perciò ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco te lo restituisco (Mt 25,25). La paura del servo infedele ad “investire” fu una giustificazione di comodo e, semmai, un’ aggravante (“tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso”: Mt 25,26), ma fece emergere la sua inettitudine a valorizzare il talento ricevuto, inettitudine cioè verso l’amore per il Signore. Per questo ricevette una severa condanna (giustizia finale). Per Dio non ci fu nessuna restituzione, sebbene si sarebbe “accontentato” di quel poco che il servo avrebbe potuto far rendere! La paura del giovane ricco, che pure osservava formalmente la legge mosaica, stava nella separazione dai propri beni, sovrastimati rispetto alla ricchezza celeste. In entrambi i casi la paura sta nell’incapacità di mettere a disposizione le doti personali conferite dal Signore, a condividerle con gli altri (chiesa, prossimo) nella gioia in Cristo. Non solo. La pigrizia a non investire nelle cose di Dio è definita come malvagità (Mt 25,26), indicando un sentimento di disprezzo verso il dono di Dio! La risposta del giovane ricco e del servo “malvagio” ci risulta ancora più chiara se la rapportiamo alla luce dell’evangelo di Giovanni (15,1 ss.), mediante cui si comprende meglio la natura profonda della relazione tra Dio e i suoi figli, qui paragonata al legame fra vite e tralci: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più. […]. Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dare frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me. […] Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore; come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e dimoro nel suo amore. Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa (Gv. 15,1 ss.). Quindi, chi dimora in Cristo: a) osserva la sua parola; b) è legato da intimo, familiare rapporto con Dio; c) conosce il vero amore; d) porta frutto; e) completa lo stato di gioia in Gesù; f) si è inermi, “impotenti” senza Cristo; g) l’amore coincide con l’adempimento delle “cose del Signore”. E se questo è vero, è anche vero il contrario, chi non dimora in Cristo: 1) non esegue di fatto la Sua volontà; 2) la relazione fra Gesù e il credente non è così stretta come quella del tralcio con la vite; 3) non conosce l’amore di Dio, pur se dovesse manifestare virtù strabilianti, come il giovane ricco (1 Cor. 13,ss.), si rivelerà poi “un tralcio staccato dalla vite”; 4) non porta frutto, cioè esprime sterilità spirituale, disimpegno verso l’edificazione e la chiesa, ed è destinato, come tralcio infruttuoso, ad essere reciso e bruciato; 5) non può vivere nella felicità interiore più completa, né può condividere la piena gioia nel Signore; 6) senza Cristo, il tralcio verrà troncato, la testimonianza relativa non può che essere vana, nonostante l’approvazione umana (Mt 7,22 s.); 7) la buona testimonianza passa attraverso “l’amore operante per mezzo della fede” (Gal. 5,6), la fedeltà sarà giudicata da Dio in Cristo (Mt. 25,31 ss.). Per contro, l’ex indemoniato fece fruttare i pochi talenti a disposizione: il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio, come Salvatore e l’adesione all’invito di Gesù (Mr 5,19 s.); l’opera di testimonianza (fruttuoso uso dei talenti) voluta dal Signore presso la sua famiglia e la decapoli, che sarà la chiave per entrare nella “gioia del Signore”; la condivisione della “Buona Novella”. Come non ricordare anche il “buon ladro” già appeso alla croce ( Luca, 23,39 ss.), che investì il talento inutilizzato fino ad allora: la confessione di Cristo come Signore in punto di morte (Lc 23,40) e l’ammissione delle proprie colpe (Lc 23,41) equivalsero a una vera e propria conversione di fede, il vero miracolo. Questo ultimo atto di misericordia di Cristo sarebbe stato impossibile all’uomo anche immaginarlo! Morale. Al servo indolente verrà tolto il talento ricevuto che sarà assegnato, ci piace pensare, alle persone come il “buon ladrone”, che avranno portato frutto a Dio in tempo utile (Mt 25,1 ss.)! Il cristiano che abbia un minimo di coscienza deve perciò sapere quanti talenti gli ha dato in gestione il Signore. È chiaro che agli occhi di Cristo non potremmo mai fare i furbi, cioè riconoscerci pochi talenti, forse uno solo, per investire pigramente nel “tesoro dei cieli”. La prevenzione a questa pericolosa condizione spirituale risiede nello stabilire vita natural durante una gerarchia di interessi con a capo le “cose di Dio”. Infatti dovremmo cercare prima di ogni altra cosa il regno e la giustizia di Dio (Mt 6,33), altrimenti rischieremo, per la nostra “tiepidezza”, di essere “vomitati dalla sua bocca” (Ap 3,16). © 2015 – Riproduzione riservata Maurizio Santopietro

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