Riflessioni

VENERDI SANTO

“Venerdì santo”: 17 morti e 1400 feriti La violenza non sembra arrestarsi per particolari circostanze religiose Venerdì 30 marzo 2018, a poche ore dalla pasqua ebraica e da quella cristiana, quest’anno casualmente coincidenti, la dimostrazione di migliaia di arabi della striscia di Gaza si è conclusa con il tristissimo e, purtroppo, non definitivo risultato di 17 morti e oltre 1400 feriti. Se un fatto simile fosse accaduto a Berlino o a Londra o a Parigi o a Roma ci sarebbero state probabilmente conseguenze gravi. Forse si sarebbe dubitato seriamente del grado di democrazia presente in quei Paesi. Forse ci sarebbero state interrogazioni parlamentari e presso le Nazioni Unite. Vedremo se ci saranno conseguenze e quali saranno. Per ora si fa propagare la voce che molti dimostranti fossero terroristi. Infatti si è visto bene che erano armati fino ai denti con... copertoni di automobile. Tuttavia, le eventuali, auspicabili, conseguenze politiche, pur importanti, qui interessano poco. Ciò che interessa, invece, sono le CIRCOSTANZE RELIGIOSE, se si può dire così, in cui quei fatti di sangue si sono svolti. Sembra che spesso tempi e ricorrenze religiose coincidano nella storia con fatti di sangue. Coloro che osservano la pasqua come santa festa religiosa ritengono che quello pasquale sia un periodo di PACE, GIOIA, SERENITÀ. Per gli ebrei, “pesah” (“passaggio, salto”, questo significa “pasqua”) è festività da osservare in ambito famigliare: si ricorda la liberazione dalla antica schiavitù in Egitto; si raccontano i dettagli di quella lunga e triste schiavitù; si racconta la liberazione ad opera del condottiero Mosè che, guidato da Yahwèh, riesce a strappare il popolo dalla servitù per condurlo verso la Filistia o Palestina; forse qualcuno rifletterà che un popolo liberato non dovrebbe mai schiavizzare altri popoli. Eppure proprio durante la pasqua dell’anno 30 (circa) d.C. accadde questo: “Ogni festa di pasqua il governatore era solito liberare alla folla un carcerato, qualunque ella volesse. Avevano allora un carcerato famigerato di nome Barabba” (Matteo 27,15 s.). Ebbene, i capi religiosi, “per invidia” verso Gesù (così scrive l’ebreo Matteo), preferiscono liberare Barabba e condannare l’uomo di Nazaret. Scelta libera e responsabile. Per chi sostiene di celebrare la pasqua per l’autorità di Cristo, dovrebbe essere ancor più vero che quello pasquale debba essere un tempo di pace e gioia spirituali profuse dal Risorto. Eppure ciò non impedì, ad esempio, ai militanti repubblicani irlandesi di attuare la Rivolta di Pasqua (Easter Rising, 1916) nel tentativo di ottenere l’indipendenza dal Regno Unito, impiegando per la prima volta nella storia i carri armati – l’idea fu talmente felice che trovò ampia applicazione nel corso della Prima Guerra Mondiale. La rivolta, come è noto, venne repressa nel sangue in pochi giorni. Il tutto in periodo pasquale. LA VIOLENZA SEMBRA SCATENARSI proprio in occasioni religiose. Negli Stati Uniti la paura di persone che sparano e uccidono durante le funzioni religiose si è ormai così diffusa che molte comunità chiudono tutti gli ingressi laterali ai luoghi di riunione e lasciano un paio di uomini armati all’ingresso principale. Pratica soluzione tipica al problema. L’Evangelo di Luca registra un avvenimento storico che fece profonda impressione sul popolo. Fu un atto sanguinario di Pilato, che durante una pasqua ebraica fece uccidere alcuni Galilei nel tempio di Gerusalemme – quello che sarà poi distrutto nel 70 d.C. Il testo dice che Pilato aveva “mescolato” il sangue di quegli uomini “con quello dei loro sacrifici” (Luca 13,1). Ciò significa che li fece uccidere durante l’azione sacrificale; fu un assassinio consumato nel tempio, che ne risultò quindi sconsacrato come il sacrificio stesso. Anni dopo, nel 35 d.C., in occasione di un pellegrinaggio di Samaritani al Monte Garizim, ci fu l’eccidio di molti di loro sempre perpetrato da Pilato – il quale più tardi sarà deposto anche per il suo carattere brutale. Si potrebbe continuare con gli esempi, ma sembra di poter dire che la violenza compiuta o subìta non pare arrestarsi, purtroppo, per le particolari circostanze religiose o per i riti della fede. Come mai? Le spiegazioni sono diverse. Una è che, evidentemente, cerimonie e riti non bastano ad arrestare la violenza, né quando religiosi o politici la attuano né quando essi la subiscono – e chi la attua non ha pietà di loro. L’essere umano, o meglio disumano, schiaccia gli altri quando vede che il proprio potere politico o religioso è, o sembra, minacciato. Si arriva così anche ad uccidere, sia pure per motivi legali o politici o religiosi. E quasi sempre impunemente. Pietro sguaina la spada nel tentativo di difendere Gesù, ma il Maestro lo riprende: “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada” (Matteo 26,52). Un consiglio buono, rimasto quasi da tutti inascoltato. L’Apocalisse non è, come qualcuno ritiene, l’orologio della Storia. Le cose che narra “debbono avvenire in breve” (1,1). Ciò che colpisce è osservare come, dinanzi a sofferenze e punizioni di ogni genere, lo scrittore ripeta più volte, con insistenza, che “gli uomini non si ravvidero dei loro omicidi” (9,21). È la sindrome di Caino, che colpisce tutti coloro che non vogliono convertirsi per amore all’amore di Dio. Il quale amore, come da tutti dimenticato, è “osservanza dei suoi comandamenti” (1 Giovanni 5,2), uno dei quali esige: non uccidere. © Riproduzione riservata Roberto Tondelli – 04 2018

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