Riflessioni

IL RIFIUTO DI ASCOLTARE LA CHIESA

Roberto Tondelli Il rifiuto di ascoltare la chiesa Pomezia, marzo 2019 • Questo studio propone in forma piuttosto schematica una serie di riflessioni sul testo biblico cui hanno contribuito tutti i membri della chiesa di Cristo Gesù che è in Pomezia. La chiesa, da oltre trent’anni, lavora nella pace e nella grazia di Dio testimoniando il Vangelo con serietà, serenità, fervore. _______________________________ Per richiedere copie del presente studio o autorizzazioni alla pubblicazione: Chiesa di Cristo in Pomezia Largo Goffredo Mameli, 16A 00040 Pomezia-Roma (RM) chiesadicristopomezia.it info[at]chiesadicristopomezia.it C.: 339 5773986 © Roberto Tondelli, Il rifiuto di ascoltare la chiesa, novembre 2005 IL RIFIUTO DI ASCOLTARE LA CHIESA PREMESSE E DOMANDE Molte problematiche – a prima vista inspiegabili e, soltanto in apparenza, difficili da risolvere – che si danno fra credenti, nella chiesa, trovano spiegazione semplice e logica nella risposta pratica che ciascuno dà alla seguente domanda: che cosa è la chiesa per te? Quale concetto hai di «chiesa»? In concreto: quanto vale la chiesa per te? Rivedendo esperienze presenti e trascorse si osserva che, a seconda del concetto che si ha di «chiesa» e del valore che ad essa si dà, si diviene credenti maturi, pronti a cooperare per il Vangelo, nella chiesa e a favore della chiesa, oppure ci si trasforma in ribelli, che finiscono per abbandonare l’opera del Signore, la chiesa, la grazia in Cristo. Si può dimostrare che un errato concetto di «chiesa» è alla base di tante distorsioni riscontrabili in ambito religioso. Per i credenti immaturi la chiesa è il luogo dove portare le proprie frustrazioni e i propri fallimenti, le proprie invidie e i propri rancori, invece d’essere luogo di gioia nel Signore, di energie spirituali da condividere assieme, prendendo parte alla meravigliosa opera unificante del Cristo (1 Corinzi 15,58 + Efesini 4,15-16; Giovanni 17,17-23). Si propone qui uno studio sulla condizione spirituale in cui viene a trovarsi chi «non ascolta la chiesa» (Matteo 18,17). Questa espressione assume una valenza forte sul labbro di Gesù, perché in genere la Scrittura pone l’enfasi sull’ascolto della Parola di Dio (Deuteronomio 4,30; Geremia 3,25; Giovanni 8,43ss). Tuttavia Gesù stesso mette in evidenza l’importanza di ascoltare la chiesa nelle sue decisioni riguardanti il peccatore che non si ravvede (Matteo 18,17). Ascoltare la chiesa è quindi, per Gesù, parte integrante dell’ascolto della Parola di Dio, che deve sempre trovare nel credente un cuore disposto all’attenzione umile e quindi all’ubbidienza. La verità è e rimane «Cristo». La chiesa è sostegno della verità del messaggio esistenziale, spirituale e morale del Cristo (1 Timoteo 3,15) persino verso coloro che trascurano o tradiscono quel messaggio con comportamenti cattivi, ribelli, superficiali, immorali, estranei o lontani dalla spiritualità di Gesù. Ma che cosa vuol dire ascoltare? Nel linguaggio biblico il verbo non indica, banalmente, il semplice atto dell’udire o del porgere orecchio. Non si ascolta la Parola e la chiesa come si ascolta la radio. L’ascoltare biblico è piuttosto un atteggiamento interiore di umile prontezza all’ubbidienza: «Parla, poiché il tuo servo ascolta», così risponde il giovane Samuele alla chiamata di Dio (1 Samuele 3,10). Maria esprime un atteggiamento di profondo ascolto interiore, dicendo: «Ecco, io sono l’ancella del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola» (Luca 1,38). In entrambe queste risposte, l’ascolto umile interiore produce prontezza al servizio umile («servo»; «ancella»). Proprio questo è l’atteggiamento richiesto a colui che riceve questo consiglio: «Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Apocalisse 2,7; la frase è ribadita sette volte nei cap. 2-3). La chiesa accoglie e fa proprio il messaggio del Vangelo. Così l’invito del Cristo è l’invito della chiesa e l’invito della chiesa è l’invito di Gesù stesso: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni. E chi ode dica: Vieni. E chi ha sete venga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita» (Apocalisse 22,17). Altro scopo di queste riflessioni è di esaminare l’applicazione e l’estensione della forza spirituale che la chiesa riceve da Cristo stesso su un aspetto specifico della propria vita: quello di rifiutare il perdono a colui che non attua i frutti di un ravvedimento concreto, legandolo in tal modo ai peccati da lui commessi: Io vi dico in verità che tutte le cose che avrete legate sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete sciolte sulla terra, saranno sciolte nel cielo. Ed anche in verità vi dico: Se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli. Poiché dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, qui sono io in mezzo a loro (Matteo 18,18). Questo studio cerca di affrontare problematiche attuali nella chiesa; ciò non sorprenda. È difficile scrivere di temi che non siano, in qualche modo, vissuti o sofferti. Gli stessi scrittori del NT non hanno scritto come curatori delle voci di un’enciclopedia. È noto che ogni libro del NT venne scritto per rispondere a problematiche ed esigenze che interessavano la chiesa nella seconda metà del primo secolo; problematiche ed esigenze che il tempo si sarebbe poi incaricato di clonare nei secoli futuri. Sta ad ogni generazione riscoprire per proprio conto la Parola di Gesù, comprenderla e applicarla con un’attualizzazione sobria e onesta. Nell’immediato contesto del brano ora citato, il meraviglioso consiglio di Gesù sulla correzione («Se il tuo fratello ha peccato…», Matteo 18,15-17) è stupendo nella sua logica morale e spirituale. Il colpevole, ripreso, non dovrebbe fare altro che «ascoltare», cioè pentirsi, ravvedersi sentitamente: dinanzi al fratello che lo rimprovera, dinanzi a più fratelli, dinanzi alla chiesa. Avere accanto a sé persone che per amore ci indichino il nostro peccato, ci riprendano e mostrino la via per superarlo, dovrebbe renderci felici! dovremmo considerare questa situazione come una vera benedizione. Nella nostra società, spesso così apatica, se uno commette un errore, la gente non si cura di lui. Non così nella chiesa, dove ci si tiene a che il peccatore si corregga e rimanga nella grazia di Cristo. Accade invece, purtroppo, che il peccatore ripreso s’allontani ancor più, s’inalberi, s’indispettisca. Subito, all’insaputa di coloro che l’hanno ripreso e ne attendono pazienti il pentimento, si mette in cerca di difensori, si esibisce nel ruolo di vittima dell’ingiusta riprensione subìta, a suo dire, con modi inurbani. Egli visita case di altri fratelli; dapprima si esprime cautamente, ma poi subito si apre con chi si mostra appena disposto a prenderne le parti. Nella sua ricerca di avvocati difensori, egli dimentica di ravvedersi, affidandosi soltanto a Gesù, unico «avvocato presso il Padre» (1 Giovanni 2,1-2). In tal modo si creano quei problemi a prima vista inspiegabili e in apparenza difficili, di cui si diceva. Chi ha qualche esperienza nella fede sa che un ravvedimento seguito da «ma» e «però» è finto. Superficialità, albagia, presunzione, supponenza, orgoglio possono far sì che la persona, rimproverata, alzi un invalicabile ponte levatoio. È quel che il NT definisce un comportamento spiritualmente infantile, moralmente bambinesco, stolto, immaturo. Insieme a tali difetti, vi è purtroppo anche un’altra condizione negativa che impedisce il ravvedimento: la mancanza d’amore per la chiesa. Chi non ama la voce della «sposa» non le dà ascolto. Ecco perché un brano in cui Gesù esplicitamente raccomanda di «ascoltare la chiesa» costituisce una parola da prendere in seria considerazione. LEGARE E SCIOGLIERE Legare e sciogliere: si tratta di due verbi in uso presso le scuole rabbiniche; essi acquisiscono significati opposti a seconda che indichino una proibizione o un obbligo. • Caso della proibizione: legare = proibire qualcosa a qualcuno; sciogliere = togliere una proibizione, permettere ciò che prima era proibito. • Caso dell’obbligo: legare = stabilire un obbligo; sciogliere = eliminare un tale obbligo; Legare (gr.: dèo; ebr.: asàr) = fissare, vincolare un obbligo. Eccone qualche esempio. Una donna che abbia pronunciato un «voto» è legata ad esso, cioè è obbligata ad osservarlo, qualora il padre (se ella è nubile) o il marito (se è sposata) non vi si oppongano (Numeri 30,10-14). Uno che per malìa venga costretto a fare una cosa si dice legato, ovvero, nel nostro linguaggio odierno, stregato (sono le cosidette legature, presenti nella terminologia magica). Sciogliere (gr.: lùo; ebr.: shera’) = annullare, togliere un obbligo. Un esempio significativo. Il rabbino Simeone ben Lakish (260 a. C. circa) impreca contro certi ladri di frutta che l’hanno derubato, e dice: «Quella gente sia maledetta!». Ma i ladri gli rispondono: «Quell’uomo sia maledetto!» Allora Simeone corre dai ladri, dicendo: «Scioglietemi». Ma quelli rispondono: «Prima sciogli tu noi, e noi scioglieremo te!». Sciogliere esprime pure in ebraico il senso di eliminare un incantesimo. Sciogliere, infine, può pure acquisire il senso di perdonare = slegare uno dalla sua colpa. Dio è «colui che scioglie i peccati», cioè colui che perdona, che toglie i peccati (Numeri 14,18; ebr.: share lecho vîn). I DUE VERBI IN MATTEO 16 E MATTEO 18 Il testo di Matteo 16,16-18 prefigura l’uso che Pietro farà delle «chiavi» per consentire l’ingresso nel «regno dei cieli», vale a dire l’ingresso nella chiesa. Si tratta, da parte di Pietro apostolo, di stabilire, in base all’insegnamento ricevuto dal Maestro, ciò che è necessario e ciò che non è necessario per chi voglia appartenere alla chiesa. Gli Atti degli apostoli costituiscono il commento migliore alla promessa che Gesù fa a Pietro: l’apostolo renderà obbligatorio una volta per sempre il battesimo per entrare nella chiesa («legato»: Atti 2,37-38 + 2,41-42), mentre eliminerà l’obbligo della circoncisione («sciolto»: Atti 10,34-35 e 44-48; Pietro dovrà addirittura giustificarsi per tale «scioglimento», Atti 15,7). Così facendo Pietro svincola la fede in Cristo dalla legge di Mosè, slega i Gentili dall’obbligo della circoncisione e, ancor prima di Paolo, stabilisce la chiesa su solide basi universali. I contesti di Matteo 16 e 18 sono del tutto diversi. Nel primo brano Gesù conferisce a Pietro la missione di introdurre persone nel regno di Dio (chiesa), indicando loro ciò che è necessario fare. Nel brano di Matteo 18, invece, Gesù insegna come comportarsi nel caso della disciplina esercitata dalla chiesa verso chi, avendo peccato, non fa poi alcun frutto degno di ravvedimento, anzi si chiude ancor più nel proprio atteggiamento ostinato, non ascolta nulla e nessuno. Colui che persiste nel peccato va considerato slegato dalla chiesa, appunto come lo è un pagano o un pubblicano. A tale proposito Pietro scrive parole gravissime, che meritano riflessione: Poiché se dopo esser fuggiti dalle contaminazioni del mondo mediante la conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, si lasciano di nuovo avviluppare in quelle e vincere, la loro condizione ultima diventa peggiore della prima. Perché sarebbe stato meglio per loro non aver conosciuta la via della giustizia, che, dopo averla conosciuta, voltare le spalle al santo comandamento che era loro stato dato. È avvenuto di loro quel che dice con verità il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito, e: La troia lavata è tornata a voltolarsi nel fango (2 Pietro 2,12). DOMANDE AL TESTO BIBLICO È bene tener presenti – sempre ben contestualizzati e analizzati – alcuni brani che consentono di porre domande interessanti al testo biblico: • perché Pietro, di fronte al peccato di Anania e Saffira, non li riprende privatamente, o perché non li ammonisce dinanzi a testimoni, prima di punirli tanto severamente? Non potrebbero, Anania e Saffira, recriminare contro Pietro per una punizione tanto rapida e severa, inflitta senza prima riprenderli personalmente e poi davanti a testimoni e poi davanti alla chiesa? (Atti 5,1-11). Se si legge il brano di Matteo 18,15-17 come una sorta di protocollo legale da seguire in ogni caso, allora l’ultima domanda posta non è più retorica, ma assume i contorni di un’accusa formale contro il povero Pietro (!); • perché Paolo non riprende personalmente il fornicatore di Corinto, prima di toglierlo di mezzo dalla chiesa? E perché mai non ordina al fratello Cloe di andare a rimproverare il peccatore in presenza di testimoni? (1 Corinzi 1,11). Perché Paolo, invece, interviene con una tale decisione? Perché afferma recisamente che «con un tale» non si deve «neppure mangiare»? (= nessuna relazione sociale che indichi un qualche appoggio al peccatore: 5,11); • perché Giovanni raccomanda di non ricevere «in casa» e «non salutare» i «seduttori», che non dimorano nell’insegnamento/ comportamento di Cristo? (2 Giovanni 7); perché Giovanni è così risoluto? E perché non ordina ai fratelli di rimproverare ciascun seduttore prima personalmente, poi dinanzi a testimoni, poi con la chiesa, prima di evitarli, in caso di mancato pentimento? Ma: avrebbe davvero senso attuare una tale procedura, mentre i seduttori continuano a violentare la chiesa, trascinandosi dietro membri e simpatizzanti? • stesse domande su Romani 16,17-18: «tenere d’occhio», «ritirarsi» (espressioni forti!) dai seduttori dissenzienti. Notiamo qualche caratteristica di costoro: fomentano dissensioni nella chiesa, ostacolando l’insegnamento ricevuto (16,17); non servono Cristo ma il proprio «ventre» (meschinerie, bassezze, materialità: 16,18); con parole dolci e lusinghiere seducono le menti dei semplici, le pecorelle più deboli del gregge di Dio. Qui siamo dinanzi alla parola seducente-e-dissenziente messa al servizio dell’inganno invece che della veracità: bugie, lacci verbali, doppi sensi, vacue lamentele, parole dette alle spalle degli interessati, invidie, rancori, e tanto vuoto (16,18). • stesse domande su 2 Timoteo 3,1-9: perché mai Paolo ordina a Timoteo di «schivare» (espressione decisa) gli ingrati, gli irreligiosi, i disubbidienti, i vanagloriosi, i calunniatori, gli amanti del danaro, che agiscono subdolamente nel privato delle «case»? • stesse domande su Tito 3,10: dopo qualche ammonizione, l’eretico va «schivato»: espressione molto energica. Ma chi è l’eretico? L’airetikòs è colui che «sceglie» a proprio piacimento ciò che vuole credere (eresìa, dal verbo gr.: airéo). L’eretico è il tipico uomo di parte che, ammonito, «sceglie» ciò che più gli piace credere e fare. Si noti che in Tito l’espressione «sana dottrina» indica il comportamento del credente sia nella chiesa che nella casa e nella società (1,9-11; 2,2ss.; 3,1-3). La «sana dottrina» va insegnata; essa si contrappone a «questioni stolte, inutili e vane» (2,1 e 3,9). Nel testo l’«eretico» è appunto colui che rigetta alcuni aspetti della vita cristiana, sceglie cosa accettare e cosa rigettare del corretto comportamento cristiano; da stolto quale egli è, si convince di ciance e si dedica a dispute vuote, spesso rallentando o annullando l’azione testimoniante della chiesa (1,10; 3,9). Persistendo nel suo errore, egli mostra un atteggiamento perverso; continua nel proprio peccato perché non ascolta, e finisce per condannare se stesso. Un tale individuo va schivato, messo al bando dalla chiesa. • stesse domande su 2 Tessalonicesi 3,14: il contesto del brano (intera lettera) evidenzia ad esempio: condanna di chi non ubbidisce al Vangelo (1,7-9); dignità della chiamata/risposta operosa per fede (1,1ss.); non farsi turbare la mente da falsi documenti (2,2); stare saldi nell’insegnamento del Vangelo (2,15); sapere che ci sono «uomini molesti e malvagi» da cui chiediamo a Dio di liberarci (3,2); comportarsi ordinatamente nella vita quotidiana (3,6); «ritiratevi»: è un ordine apostolico forte, netto; si deve star lontani da quanti si comportano disordinatamente «non facendo nulla, ma ficcando il naso dappertutto» (3,6; 3,11). Tutta la vita del credente viene qui presa in considerazione: anzitutto il lavoro, che dev’essere onesto, che consenta di non «mangiare il pane gratuito altrui»; vale il buon criterio pratico: «chi non vuole lavorare neppure deve mangiare» (3,10); bisogna lavorare in quiete e mangiare il proprio pane (3,12). Come comportarsi con chi rifiuta di ubbidire a ciò che Paolo dice «in questa epistola»? Il comandamento è: «Notatelo quel tale», segnatelo quell’individuo, e «non abbiate relazioni con lui, affinché si vergogni» (brano molto forte: 3,14). Talvolta si trova difficile armonizzare le gravi situazioni e i severi rimedi visti sopra, con il v. 15 di 2 Tessalonicesi 3: «Però non lo tenete per nemico, ma ammonitelo come un fratello». Ma anche nel testo biblico non si deve cercare di armonizzare ciò che armonizzabile non è. La Parola è bella e sapiente non solo, come si pensa, per la sua omogeneità, ma anche – e soprattutto – per le differenze che essa stessa stabilisce al proprio interno. Se la frase «però non consideratelo un nemico, ma ammonitelo come un fratello» fosse da attuare sempre e in ogni caso, sarebbe evidente che: • Pietro avrebbe attuato un’azione pessima contro Anania e Saffira; • le decisioni di Paolo nei confronti del fornicatore corinzio sembrerebbero eccessive; • le frasi di Giovanni e Paolo circa i seduttori dissenzienti apparirebbero draconiane; • i consigli/ordini dati agli evangelisti Tito e Timoteo, riguardanti eretici, irreligiosi, disubbidienti, calunniatori, potrebbero apparire esagerati. In questi casi, infatti, si sarebbe dovuto continuare ad ammonire Anania, Saffira, il fornicatore, i guastatori delle chiese, i calunniatori, i disubbidienti, gli eretici, senza considerarli nemici di Cristo, ma ammonendoli come fratelli. Ma è proprio questo ciò che afferma il testo biblico? In genere, quando si pensa ai «nemici», si corre al noto «amate i vostri nemici» (Matteo 5,44). Quale sia il contesto generale e immediato della frase lo si ignora. Questa è, purtroppo, la maniera migliore per ragionare non alla luce del testo biblico, bensì in base a stereotipi biblici, in genere non rispondenti al significato reale del testo. Il brano di Matteo 5,44 è costruito con un tipico parallelismo semitico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano. Qui il verbo «pregate» spiega il parallelo «amate», così come i «persecutori» identificano bene i «nemici». Matteo scrive quando già la chiesa esiste e viene perseguitata dai giudei e dalla polizia imperiale: sono questi i persecutori, i «nemici» per cui pregare, come fece Gesù stesso, pregando per i proprî: «Padre, perdona loro…» (Luca 23,34). Quando, invece, gli apostoli notano e giudicano il comportamento di cristiani ribelli, che guastano la chiesa coi loro pessimi esempi, le parole usate sono dure e ben poco evangeliche. Paolo, ad esempio, descrive così molte persone dal comportamento immorale, che hanno abbandonato Cristo e la chiesa: Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l’esempio che avete in noi. Poiché molti camminano (ve l’ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l’animo dalle cose della terra» (Filippesi 3,17 ss). Analoghe sono le condizioni e le situazioni di cui scrivono Luca, Paolo e Giovanni nei brani visti sopra. Il NT parla persino, in taluni casi, di una vera e propria «impossibilità di rinnovamento» dei credenti che cadono nell’apostasìa (allontanamento dalla chiesa e da Cristo, Ebrei 6,4 ss). La frase «non lo tenete per nemico, ma ammonitelo come un fratello» va letta nel contesto che tratta dei «disordinati»: essi sono oziosi nullafacenti, si occupano di niente, ma forse sono recuperabili a Cristo (2 Tessalonicesi 3,12-15). La frase non è affatto in contraddizione con il serio «non abbiate relazione», e va certo attuata: ma non per difendere i peccatori, consolarli nelle loro lamentele, assecondarli nel loro vittimismo, bensì per indurre in loro un ravvedimento fattivo. Se tale ravvedimento non si attua, se la chiesa resta inascoltata, si raggiunge un preciso momento di rottura delle relazioni, quando la chiesa di Cristo ha la forza e la responsabilità da Cristo di considerare i peccatori come «gente che ha l’animo alle cose della terra». UNA QUESTIONE FONDANTE E DUE IPOTESI ONIRICHE Lo scopo delle domande ripetute e sottolineate sopra è cercare di sviluppare il nostro senso critico per mostrare come si comporta la chiesa quando il peccato è manifesto, pubblico, dilagante, fuori da ogni possibile controllo (non più quindi interpersonale o ricomponibile tra pochi ). La chiesa – inascoltata, anzi minacciata nella sua integrità – agisce e reagisce con la forza che le viene dal Cristo. Emerge qui una questione biblica fondante: dai brani sopra considerati, quale concetto concreto di «chiesa» emerge? Qual è l’idea e il valore di «chiesa» che Giovanni, Pietro, Paolo propongono e comunicano ai lettori? E qual è il grado di serietà nel comportamento della chiesa in tali questioni? Direi che emerge qui la realtà della chiesa in tutta la sua serietà, santità, sacralità, rettamente intese come: serietà di comportamento, santità di vita quotidiana, sacralità nella relazione col Signore, con le sorelle, con i fratelli in Cristo. Giovanni, Pietro, Paolo guardano alla chiesa come ad una realtà dal valore alto: e questo valore vogliono comunicare ai loro lettori affinché lo attuino. È Cristo stesso che agisce nella chiesa sua per purificarne il comportamento «col lavacro dell’acqua mediante la Parola». La chiesa deve vivere la propria esistenza sempre «dinanzi» al Cristo, in presenza del Cristo, che è con lei «tutti i giorni» (Efesini 5,25 ss; Matteo 28,20). Tornando col pensiero alle domande poste all’inizio, proviamo a considerare i seguenti scenari. • Anania e Saffira, consultandosi, si dicano l’un l’altra: – Che cosa stiamo mai facendo? Così tradiamo la buona fede della chiesa con un comportamento finto! Smettiamola, diciamo apertamente quanto vogliamo offrire, senza infingimenti! Perché dobbiamo continuare a far vedere che abbiamo donato tutto, quando ciò non è vero? Perché dobbiamo dare ad intendere di essere nella necessità, quando ciò è falso? Fidiamoci dei fratelli della chiesa! • Il fornicatore corinzio, ricordando che il proprio amore per la chiesa era stato un giorno ben superiore alla propria attuale attrazione per una donna, ammetta: – Per amore della chiesa, per amore di Cristo, io riconduco questa donna a suo marito; sono pronto a subire tutte le conseguenze del mio peccato; voglio smettere di ragionare col mio (basso) ventre, perché facendo così mi comporto da avversario (= ebr.: satana) della chiesa. Basta! voglio tornare a pensare con la mente di Cristo. • I seduttori, loquaci nell’intimo delle case, riveduta la loro vita, riflettano: – Smettiamola di agire come spie; stiamo facendo del male alla chiesa e ad altri che ci vedono agire in modo sinistro; torniamo ad amare la chiesa, gettiamo via maldicenze e calunnie; torniamo all’onestà, torniamo ad agire per l’unità della chiesa nella verità del Cristo! • I disordinati di cui scrive Paolo, considerando che Gesù ha dato se stesso per la chiesa, dicano a se stessi: – Basta aver perduto tanto tempo a non far nulla, a non lavorare per il Signore, a dare cattivo esempio di noi stessi alla chiesa e al prossimo; basta lamentarci! basta fare i pigri; basta vivere alle spalle altrui; d’ora in avanti la nostra testimonianza torni ad essere quella di persone che amano il Signore della chiesa, e lo rispettano rispettando la chiesa, operando con zelo in essa e per essa, lavorando onestamente con le nostre mani! È bello voler ritrovare l’armonia grazie al ravvedimento profondo e sincero. Ma «ravvedersi», nel linguaggio biblico, significa cambiare la propria mentalità, imparando a pensare/agire secondo Cristo. Forse vi è qui una modesta lezione da apprendere: se davvero si ama la chiesa, allora si abbassa il ponte levatoio. Di fronte alla possibilità, anche remota, di creare ostacolo all’azione della chiesa per una nostra scelta (eresia), se davvero si ama la chiesa, allora ci si piega, come forse dovette fare la giraffa, entrando nell’arca. Ma tutto ciò è pura ipotesi onirica. La Parola di Dio ci risveglia e dichiara che: per chi pensa col «proprio ventre» (Romani 16,18) l’amore per la chiesa e i sacrifici fatti per amore della chiesa sono puro nonsenso. Chi pensa col «proprio ventre» non è disposto a fare proprio nulla in favore della chiesa. Egli sempre e soltanto prende. Non dà mai realmente (contro l’esempio di Gesù, Atti 20,36). Facciamo ora un’altra ipotesi, meno onirica. Consideriamo scenari alternativi ai precedenti. • Anania e Saffira non muoiono di un colpo apoplettico, ricevono però una riprensione severissima. Sbugiardati, se ne vanno muti, a testa bassa. Nei giorni seguenti rimuginano sull’accaduto. Ruminano rancori. Più o meno casualmente incontrano qualche altra coppia, con cui condividono il loro stato d’animo, i loro dubbi. Passano settimane: i due partecipano alla Cena del Signore, intanto cogitano. I pensieri formulano accuse e scuse nelle loro coscienze. Le scuse divengono pian piano ragioni, poi motivazioni, quindi prove, anzi dimostrazioni! così persuasive alle loro coscienze nere da indurli ad una decisione inderogabile: andranno nella vicina Betania. Qui vi è una comunità di credenti ai quali l’impulsiva irruenza del carattere di Pietro non è mai piaciuta; la chiesa è numericamente piccola, e la ricca coppia viene presto accolta in seno alla chiesa locale. • Il fornicatore corinzio si reca in comunità. La chiesa ha appena ricevuto la lettera di Paolo, che viene letta per intero. Alla fine della lettura – ben undici inascoltati capitoli dopo il quinto, che lo riguarda – gli occhi di tutti sono fissi su di lui. Con calma violenta l’uomo si alza, lascia l’assemblea, si reca dal proprio avvocato e denuncia Paolo e la chiesa di Corinto per violazione della sua privacy: che cosa interessa mai a Paolo e alla chiesa di come egli conduce la sua vita privata? Non contento della denuncia, quel tale cerca nell’ambiente cristiano di Corinto altri come lui e, visto il grado di moralità presente, non gli è difficile trovare gente che ne condivida la giusta protesta. Allontanati dalla chiesa, questi tali non si danno per vinti dinanzi alla seria riprensione della chiesa e… costituiscono un’altra chiesa. • I seduttori menzionati da Paolo e Giovanni, hanno meno da rimuginare di Anania e Saffira, e anche meno da decidere del fornicatore corinzio. La loro indole e il loro modo di agire hanno già deciso per loro. Le loro ciancerie, i lacci verbali ai quali sono abituati, la loro stessa invidia, quella loro abilità di dire e non dire, le stesse bugie con cui seducono altri e se stessi, non permettono loro di nutrire dubbi di sorta. Hanno battuto le «case» dei membri della chiesa non per annunciare il Vangelo di Cristo (Atti 5,42!), bensì per accattivarsi simpatie, cercare adesioni, fare proseliti alla loro azione subdola; la quale adesso può finalmente uscire allo scoperto… ed essi costituiscono un’altra chiesa. • I disordinati, contro cui la chiesa è avvisata, sono – lo dice la parola – umanamente asociali, disorganizzati mentali cronici. Dicono di pensare a Cristo, ma intanto non sanno tenersi un lavoro onesto. La loro incapacità li porta ad ignorare che cosa sia la fatica del lavoro: per questo disprezzano, guastano, sfruttano il lavoro e la fatica altrui. La loro svogliatezza li induce ad ignorare l’impegno nel lavoro. Sono presuntuosi, senza coscienza, privi di responsabilità. Però portano sempre negli occhi vacui e nell’atteggiamento del corpo, lievemente ripiegato in avanti, lo stesso messaggio subliminale: «In fondo in fondo sono un buon poveraccio, ho solo bisogno d’aiuto!» I disordinati fanno progetti per un vago futuro escatologico, e intanto s’accomodano volentieri in casa d’altri. Mai rifiutano un invito, anzi quasi lo pretendono (siamo fratelli in Cristo!). Non conoscono l’onore. Ignorano la dignità. Appendono il cappello in tutte le case dove entrano. Omero li chiamerebbe «proci», come gli sbafatori in casa di Ulisse, finiti in tragedia. Dante stesso non li persuaderebbe mai: «Come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale». I disordinati s’attirano l’un l’altro lungo linee di forza prodotte dai loro comuni interessi, profitti e convenienze. Ed è naturale per loro costituire… un’altra chiesa. Il Lettore riconoscerà che non è l’immaginazione a far brutti scherzi allo scrivente, perché la realtà supera spesso la fantasia. Anche qui vi è forse una modesta lezione: non tutte le chiese ascoltano-e-servono in umiltà il Cristo. C’è confusione, è innegabile; ma discernere non è così impossibile. Il criterio è uno, «Cristo Gesù»: la sua serietà, santità, saggezza, sobrietà. Basta osservare e ricercare, evitando con cura stereotipi d’ogni genere, specialmente quelli religiosi. Quale sarà mai l’opinione che Pietro si farà della chiesa di Betania, che ha accolto la coppia di furbi? Che cosa penseranno mai Paolo e Giovanni delle chiese altre? Se si tiene ferma la realtà alta della «chiesa», porre queste domande significa rispondere. Una chiesa che accoglie il male considerandolo un bene, è una chiesa altra (= diversa) rispetto alla chiesa di Dio. Una chiesa che fonda la propria testimonianza su simpatie e antipatie, calunnie e invidie, sfruttamenti e complicità è una chiesa altra (= diversa) rispetto alla chiesa di Gesù. Una tale chiesa potrà persino denominarsi chiesa di Cristo, ma sarà una parodia blasfema della chiesa che appartiene al Cristo quando la domenica scimmiotterà con pane e vino una partecipazione al corpo e al sangue di Cristo. Anche in questa seconda ipotesi (meno) onirica, la Parola ci risveglia per dichiarare che: l’amore, i sacrifici, le fatiche attuati a favore della chiesa non hanno significato alcuno per la persona maligna, sleale, abituata a calunniare, per il profittatore. Per un tale individuo la generosità di Paolo che, faticando nella predicazione, compie a pro della chiesa «ciò che manca alle afflizioni di Cristo», è puro nonsenso; la generosità di chi ritiene con Gesù che «più felice cosa è il dare che il ricevere» è pura follia (Colossesi 1,24; Atti 20,36). Coloro che pensano con il proprio ventre non hanno paura di formare congreghe, perché: • non temono il Cristo edificatore della chiesa, • non ascoltano lo Spirito che parla alla chiesa, • rifiutano di ascoltare la chiesa. Considerazioni conclusive Il «voi» di Matteo 18,18 indica la chiesa; si è visto infatti che le chiese esistono già quando Matteo scrive il proprio vangelo. In questo passo il contesto riguarda i peccati di cui una persona si ravvede o non si ravvede. Se il peccatore si ravvede, la chiesa lo mantiene nella sua comunione in Cristo: il peccato in tal caso viene slegato, perdonato, perché Dio sancisce ciò che la chiesa attua. Se il peccatore si ostina nella colpa senza ascoltare la chiesa, allora questa considera il peccatore come un pagano non più unito ad essa, e lega, vincola, il peccato su di lui. In questo secondo caso, si tratta pur sempre di una norma d’amore, che mediante una correzione severa e seria, tende a far rientrare in sé anche il peccatore incallito. Talvolta però, dinanzi a persone ribelli e disubbidienti, non disposte ad ascoltare nulla e nessuno, le quali anzi impediscono l’azione positiva della chiesa, occorre intervenire decisamente per salvare il corpo mozzando la mano che induce al peccato (Matteo 5,30). La chiesa che esiti in questo somiglia al medico pietoso, che fa la piaga purulenta. La domanda posta da Paolo ha davvero un significato profondo: «Non sapete che un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta? Purificatevi dal vecchio lievito…» (1 Corinzi 5,6). Si tratta qui di una seria azione purificante attuata dalla chiesa la quale, agendo in modo compatto, mediante un atto forte e solidale dei propri membri – sotto la guida spirituale/morale dai propri vescovi, se ve ne sono, e comunque per impulso dei membri più saggi e responsabili nella fede – esercita la disciplina verso i peccatori ribelli. Nelle situazioni viste sopra, alla chiesa viene data dal Signore una concreta responsabilità spirituale: fissare, legare, i peccati sul peccatore impenitente; oppure perdonarlo, slegare il peccato da lui, quando si osservi che egli se ne è ravveduto e mostra col proprio comportamento un pentimento sincero e fattivo. In assenza di tali condizioni, la chiesa è chiamata a legare il peccato al peccatore, rifiutandogli il perdono; è chiamata a «togliere di mezzo» colui che persevera nel peccato, a rigettare un comportamento contaminante fatto di malizia e malvagità, a purificarsi adottando sincerità e verità (1 Corinzi 5,7-8). Il criterio che la chiesa segue non è suggerito dal quieto vivere. Mai il comportamento di Gesù si ispirò a un tale principio. La norma morale della chiesa è quella di una testimonianza di vita pura, santa. Di qui segue la necessità del ravvedimento umile e continuo, come pure la necessità di confessare subito il peccato, non facendo posto a presunzione e arroganza (1 Giovanni 1,5-10; 2,1-2; Giacomo 5,16). Di qui segue pure la necessità della partecipazione costante alla «mensa del Signore», intorno alla quale si raccoglie il «corpo unico». Questa partecipazione («comunione») è pure un continuo esame di coscienza, una verifica seria di se stessi, perché chi «non discerne il corpo di Cristo», che è la chiesa, mangia e beve la propria condanna (1 Corinzi 10,14-22; 11,27-32). La legge scritta nei cuori dice, anche, di non mischiarsi con alcuno che, dicendosi fratello, sia un fornicatore, un avaro, un idolatra, un oltraggiatore, un ubriacone, un rapace (1 Corinzi 5,9-12). Non si deve temere di rilevare simili comportamenti. La maggior parte dei problemi dottrinali esplosi in epoca apostolica furono legati a comportamenti immorali. Le cose non sono cambiate. «Non giudicate voi quelli di dentro?»: questa è la domanda capitale che l’apostolo pone alla chiesa oggi. Sì, la chiesa ha la missione di testimoniare santità all’esterno, ma ha il dovere di vigilare e giudicare il proprio interno. Un dovere troppo spesso disatteso. Non è forse proprio questa mancanza di autocritica e autogiudizio a provocare il rimprovero serissimo che il mondo laico muove alla religione in genere e alle chiese? Può la chiesa del Signore rifiutarsi di applicare a se stessa la norma che Cristo stesso le chiede di attuare? La chiesa è chiamata, talvolta, ad agire con la stessa dignità, responsabilità, serietà, serenità, rapidità e con lo stesso amore con cui si muove la mano del chirurgo, anche quando deve amputare: «Togliete il malvagio di mezzo a voi stessi». Amare Dio significa anche nutrire e coltivare una buona disposizione d’animo per un ascolto umile rivolto alla chiesa di Dio. Però, con il coraggio della fede fiduciosa, occorre porsi la domanda: qual è, in concreto, il concetto che abbiamo della chiesa di Dio? quale valore reale diamo alla chiesa di Dio che è in Cristo Gesù? Che cosa siamo disposti a dare e a fare per la chiesa, popolo di Dio? Alla coscienza di ciascuno la responsabilità della risposta. R.T.

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