Riflessioni

Lavoro e sudditanza

Lavoro e sudditanza Ecco due possibili perversioni del lavoro: lavorare solo spinti dalla fame e lavorare per timore del padrone È una realtà che chi cerca lavoro lo cerca spesso mediante quegli appoggi noti come RACCOMANDAZIONI. “Lei conosce qualche politico? oppure qualche prelato? C’è qualcuno che la possa raccomandare?” Questo tipo di domande sono spesso rivolte a chi presenta il curriculum per un lavoro, sia lavoro comune sia qualificato. Talvolta, quando si afferma che “d’ora in avanti si adotterà la norma etica del merito”, si parla tanto per parlare. In questa situazione, qualcuno si consolerà dicendo che la pratica della raccomandazione non tocca solo il nostro Paese, ma è comune anche in altri Paesi. Sarà! Il fatto è che tale pratica genera spesso un RAPPORTO DI SUDDITANZA tra chi trova lavoro mediante raccomandazione e chi fa la raccomandazione stessa. Una sudditanza che ha tante conseguenze, sulle quali qui non ci si sofferma… Più interessante invece è notare qualche altro aspetto dell’insegnamento di Gesù sul lavoro. L’Evangelo non è un testo sociale né politico, quindi la breve risposta a questa domanda sarà indiretta. Si consideri la nota parabola del figlio prodigo nell’evangelo di Luca (cap.15). Il cuore del racconto è certo la misericordia divina. Tuttavia ci sono pure vari accenni alla realtà del lavoro che possono far riflettere. Nel racconto compaiono un padre, due figli e alcuni servi. Ma sia il figlio più giovane, che se ne va da casa dopo aver preteso la sua parte di eredità, sia il primogenito rimasto a casa sembra che considerino il PADRE più come un PADRONE che come un vero e proprio padre. Tutti e due agiscono non come figli quanto piuttosto come sudditi (quasi schiavi). Il figlio prodigo spende malamente l’eredità ricevuta e poi “si pente”. Ma perché si pente? Come mai decide di tornare a casa? Perché ha fame, è nel bisogno. Ricorda che i servi del padre mangiano pane bianco, mentre lui deve digiunare. Decide perciò di tornare a casa per potersi sfamare, lavorando per il padre come un suo “servo”. Insomma, torna dal padre non per affetto ma per il salario che il padre dà ai suoi servi. Dunque non è più un figlio, ma un suddito, uno schiavo: è disposto a fare il servo per soddisfare la propria fame. E pensa al padre non come a un amorevole genitore, ma come a un padrone forse un poco più altruista del datore di lavoro straniero che gli faceva pascolare i maiali. Decide di “raccomandarsi” anche a costo di diventare servo. L’altro figlio, il primogenito rimasto a fare il bravo a casa, sembra pure lui un servo, ragiona da schiavo. Evita di partecipare al pranzo in onore del ritorno del fratello, e dice al padre: “Io ti servo” da anni, non ho mai trasgredito un tuo comando, ma tu non mi hai mai dato neanche un capretto per festeggiare con gli amici. Che razza di figlio è mai questo che accampa il “merito” del servizio e rinfaccia al padre di averlo servito? Non parla da figlio, ma agisce da servo. Per lui il padre è padrone più che padre. Padrone che ordina, e suddito che ubbidisce, che “serve”. Il rapporto fra padre e figli può e deve essere diverso, basato sull’amore, cioè su rispetto, affetto, stima, considerazione, cura amorevole reciproca. La parabola mostra in che modo questi due schiavi possano realmente diventare figli. E tale importante sviluppo da schiavi a figli si può realizzare solo grazie al padre che va incontro ai figli e li invita a CAMBIARE MENTALITÀ (è questa la vera conversione!). È il padre, infatti, che corre incontro al figlio prodigo, lo abbraccia, lo bacia e lo ribacia. Lo fa rivestire di un bell’abito, gli mette un anello d’oro al dito e le scarpe ai piedi. Insomma gli restituisce dignità e onore! Questi gesti accoglienti del padre (non padrone, ma genitore amorevole) sono indicativi perché hanno lo scopo di trasformare il servo/suddito in un figlio vero. Il figlio prodigo non viene affatto trattato come servo/suddito. Il padre stesso, mosso da affetto anche per il primogenito, lo invita a fare festa per il ritorno del fratello. Per questo figlio, passare dalla propria mentalità da schiavo alla nuova mentalità di figlio significa riconoscere che il proprio rapporto col padre non dipende solo dai “meriti” dell’osservanza degli ordini ricevuti. C’è un valore più grande, l’amore accogliente che apre il cuore. Qui la parabola termina. Non si sa come ha risposto il figlio. CIASCUNO DEVE/PUÒ DARE LA SUA RISPOSTA responsabile al padre che ci invita a smetterla di farci schiavi degli uomini, a smetterla di accampare meriti, e a tornare a rapporti fondati sulla stima e la considerazione (amore). Basta col lavoro da schiavi. Basta col lavoro fatto solo per riempire la pancia. Basta col lavoro cercato solo per un “salario”. Se nell’ambito lavorativo chi dà lavoro e chi lavora non immettono la dimensione della stima, della considerazione, del riconoscimento del lavoro fatto, dell’amore al lavoro, si continuerà a “lavorare per il 27” e a vivere condizioni di sudditanza (quasi schiavitù) senza una vera nobiltà lavorativa. Datore di lavoro e lavoratore ricevono da Dio-Padre “LA VITA, IL FIATO E OGNI COSA” (Atti, 17). Se non avessimo ricevuto queste tre benedizioni, oggi non saremmo potuti venire al lavoro né avremmo potuto dare lavoro. Nella Grande Casa che è il mondo, Dio-Padre non nutre degli schiavi, ma ama dei figli. In questa casa siamo figli Suoi. La parabola di Gesù mostra la misericordia divina e offre spunti per il mondo del lavoro. Ci sono almeno due possibili perversioni del lavoro: lavorare solo spinti dalla fame e lavorare per timore del padrone. Alla domanda “C’è qualcuno che La possa raccomandare?” si dovrebbe poter rispondere “Mi raccomanda Dio”. Senza banalizzare la risposta, senza approfittarsi delle situazioni, se non si vuole scherzare col fuoco. Si è scherzato col fuoco per troppo tempo. Troppe le follie in nome di Dio hanno generato una società spietata che non vuole Dio. © Riproduzione riservata Roberto Tondelli, Libertà Sicilia 04 2019

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